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Bambini palestinesi in un campo per sfollati danneggiato da un bombardamento israeliano - Reuters
«Quale corpo, quale cuore può sopportare quello che sta accadendo a Gaza City?» scrive sul suo profilo Instagram Samar Abu Elof, fotogiornalista palestinese divenuta famosa negli scorsi mesi perché vincitrice del World Press Photo 2025, uno dei premi più prestigiosi a livello mondiale per la fotografia. Lei non è più nella Striscia, ma a Gaza City è rimasta tutta la sua famiglia. «I miei parenti sono ancora tutti lì – racconta, sempre sulla sua pagina –. Non hanno nessun posto dove andare. Mia sorella mi dice che è seduta per terra mentre avvengono i bombardamenti più violenti e il fumo soffoca i suoi bambini».
Per lei, come per centinaia di altri palestinesi, i social sono un modo per raccontare ciò che accade a Gaza. Nelle ultime ore, l’intensità dei racconti va di pari passo con le notizie della cronaca: l’occupazione via terra, i bombardamenti molto frequenti, gli edifici rasi al suolo, le almeno 700mila persone ancora a Gaza City. «È uno dei momenti più duri della mia vita – scrive ancora Samar Abu Elof –. Sto ricevendo i messaggi delle persone che mi dicono addio. Mi scrivono che a Gaza City sarà impossibile sopravvivere, mi chiedono di non dimenticarli, di raccontare le loro storie».
Sul suo profilo, negli scorsi mesi la fotografa ha raccontato Gaza con immagini di vita quotidiana, cercando di cogliere tutti i possibili spiragli di speranza. Come il diploma di fine anno di un nipote, al termine di un anno di scuola materna concluso nonostante il contesto. O la foto di una tazza di tè: «Le mie sorelle hanno potuto bere una bevanda zuccherata per la prima volta dopo molto tempo, è una giornata speciale per loro – scriveva la fotografa –. Quando la felicità si riduce a un cucchiaino di zucchero».
In questi giorni, invece, è la spietatezza della realtà a vincere. La stessa realtà che racconta anche un altro giornalista e attivista, Yousef Meso, che si trova ancora a Gaza City. Su Instagram scrive: «Questa notte l’esercito israeliano ha bombardato tre palazzi poco distanti dalle tende dove vivo con la mia famiglia». Poi chiede di non scostare lo sguardo dalle immagini che arrivano in queste ore.
Mostrano bambini feriti, persone in barella, macerie. «Non dimenticateci» dice.La stessa richiesta che arriva anche da Ahmed, un ragazzino che è rimasto a Gaza City con il padre e la sorella. Insieme gestiscono una pagina che fino a ieri raccontava la passione di Ahmed per piccole piante coltivate tra le macerie, raccontate come preziose in questo tempo di distruzione. Da ieri sul loro profilo si legge che «da tre giorni stiamo cercando un modo per andare via da Gaza City ma non è stato possibile trovarne uno. Se anche riuscissimo a spostarci, una tenda costerebbe duemila dollari e il posto dove metterla 500 altri dollari ogni mese». Cifre che per molti non sono sostenibili. Segue una richiesta esplicita di aiuto: «Siamo bloccati e questa per noi è la fine. Vi prego, qualcuno ci aiuti, qualcuno ci porti via da qui».
Per chi invece può spostarsi, che cosa significa lasciare la propria casa? Risponde Sami Abu Omar, cooperante palestinese. Non è a Gaza City, si trova nel Sud della Striscia, a Khan Yunis, ma in questi mesi si è spostato più volte. Su Instagram scrive: «Lo sfollamento non è solo lasciare una casa, è una morte lenta mentre siamo ancora vivi. Quando io ho dovuto andarmene ho lasciato la porta aperta, sono stato incapace di chiuderla perché tutti i miei ricordi erano lì. Oggi è ridotta in macerie».
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