martedì, gennaio 30, 2024

Elio Lannutti

 Perché ci piace De André? E perché le sue canzoni ci colpiscono, come un pugno allo stomaco? Il tono di voce, certo. Poi, le tematiche, così diverse, dirompenti. Per tutti coloro che lo ascoltano, anche per i giovani di oggi, a quasi vent'anni dalla sua scomparsa, l'esperienza comune è quella di una sensazione precisa nel momento stesso in cui si sente un suo brano per la prima volta: quella dell'incantamento. Le sue canzoni, l’approccio, gli argomenti trattati, ammaliano l’ascoltatore. Letteralmente. De André ha una particolarità: risveglia le coscienze, ci apre la mente. È un compagno, un amico, un maestro che possiede la capacità, il dono di illuminarti, ma anche la capacità di abbattersi con decisione senza timori reverenziali, contro le ipocrisie del potere. Di ogni potere: Stato, Chiesa, magistratura, famiglia. De André è un ribelle, pacato nei modi, ma durissimo, quasi violento, nelle argomentazioni. Traumatico, addirittura. Nessuno prima di lui aveva reagito con un tale vigore contro quello che definisce in alcuni testi, come "l'ordine costituito".

E la sua opera finisce, anche sotto questo aspetto, per essere un unicum, un insieme da prendere in blocco, "una risorsa di inimmaginabile valore: non solo dal punto di vista poetico, ma anche psicologico e sociale".   De André fa pensare in proprio, rafforza l’idendità personale, contro un'omologazione che finirebbe, altrimenti, per distorcere e piegare il singolo al desiderio della massa.


Dal libro, "Le molte feritoie della notte", di Marco Ansaldo.

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