martedì, novembre 16, 2021

Massimo Fini

 La Puglia dei miracoli


Margherita di Savoia (Foggia). Margherita di Savoia si sveglia alle quattro del mattino. Alle quattro si alzano i contadini per andare sui campi. Alle quattro si alza il primo gruppo di pescatori, quelli che vanno per frutti di mare, una pesca molto redditizia che si fa con grandi barche armate d’un ampio rastrello per arare il fondo. Torneranno in porto alle otto ed i frutti di mare prenderanno la strada di Barletta, di Foggia, di Bari ma anche della Spagna. Nel frattempo saranno stati sostituiti, sul mare, da quelli che, con barche più piccole, pescano le seppie sottocosta, che si levano alle sei e saranno di ritorno a mezzogiorno. Alle quattro, e anche po’ prima, si alzano gli impiegati e gli operai delle saline perché sono anch’essi contadini e devono affrettarsi sui campi prima degli altri. Vi ritorneranno, come tutti, alle cinque del pomeriggio quando il sole è un po’ meno bianco e omicida.

E alle quattro si alza anche Benito Di Staso, il mediatore. Di Staso è un gigante di cinquant’anni, le spalle enormi, le mani possenti, il corpo agile e giovane, il viso cotto dal sole cui danno risalto i capelli quasi completamente bianchi: fa il mediatore di prodotti ortofrutticoli, soprattutto cipolle, patate, carote, uva, che raccoglie dai contadini della zona e vende all’estero, in Inghilterra, in Irlanda, in Scandinavia, in Francia, in Germania, in Svizzera, sui mercati ricchi perché i prodotti della terra di Margherita, in particolare le cipolle e le patate, sono di grande qualità. Di Staso muove, a seconda della stagione, dalle centocinquanta alle duecento persone, commercializza 50 mila quintali di cipolle l’anno, 60 mila di patate e altre decine di migliaia di quintali di prodotti vari, ha un giro d’affari di quattro miliardi l’anno, un utile di settecento milioni. Al suo livello, nel barlettano, ce ne sono altri quattro o cinque, i fratelli Carpentieri, i Caputo, i Lanquino, i Todisco, i De Martino, seguiti da una settantina di operatori più piccoli che lavorano soprattutto per il mercato interno.

Benito Di Staso è oggi miliardario, ha terreni, case, immobili, ma ogni giorno si alza all’alba e finisce alle dieci di sera. Noi seguiremo la sua lunga giornata di lavoro servendocene come filo conduttore per cercare di capire il miracolo di questo lembo di terra pugliese, che sta grosso modo nel triangolo Margherita di Savoia - San Ferdinando di Puglia - Barletta, i cui abitanti, dopo secoli di stenti, si van facendo ricchi, il prodigio di questo spicchio d’Italia che funziona, contro ogni aspettativa e regola, in barba all’Italia che non funziona.

La grande Volvo di Di Staso manovra con una certa fatica fra le case basse di Margherita di Savoia, un paese di quindicimila abitanti che ha due sole strade che corrono parallele al mare, ma centinaia di vicoli, corti e stretti, perfettamente allineati, che lo tagliano in verticale. Benito mi spiega il motivo di questa singolare disposizione urbanistica: il vento deve poter passare fra le case per raggiungere le saline che sono alle spalle del paese, perché la salina ha bisogno del sole ma anche del vento.

La macchina corre veloce verso il nord, in direzione del Gargano il cui profilo si disegna incerto nella luce dell’alba, avendo sulla destra, vicinissimo, il mare e sulla sinistra le grandi vasche delle saline che già di questa stagione si tingono d’un rosa carico, segno che il sale sta lentamente emergendo. Le saline arrivano fino a Zapponeta, il primo paese a nord di Margherita, lungo ventiquattro chilometri di costa ed hanno una larghezza di quattro: sono le più grandi d’Europa, producono 500 mila tonnellate di sale l’anno e coprono l’ottanta per cento del fabbisogno nazionale.

Nella stretta lingua di terra che rimane fra le saline ed il mare, cinquecento metri d’arenile, non di più, si compie il miracolo di Margherita di Savoia. Da questa sabbia in origine povera, arida, i contadini di Margherita hanno ricavato una teoria infinita di campi, alcuni non più larghi di trenta metri, che rivoltati e lavorati per generazioni, arricchiti di stallatico, concimati con pazienza, trattati con sapienza, producono oggi, da novembre ad aprile, 400 mila quintali di carote, da aprile ad agosto, 400 mila quintali di cipolle, e 60 mila quintali di patate suddivisi fra i due raccolti di primavera e di autunno. E la sorte ha voluto che propria questa sabbia partorisca le cipolle e le patate più belle del mondo. Le cipolle non son cipolle, sono diamanti luccicanti, grosse come il pugno di un contadino, bianchissime e tenere, che si possono mangiare così come sono, intinte in un poco di sale. Le patate sono piccole, ma hanno una pasta saporita e tenera che si scioglie appena arriva alla bocca. Tanto che qui si dice - e se non è vero è verosimile - che la regina d’Inghilterra non si mette a tavola se non ha le patate di Margherita. Insomma sono prodotti pregiati come conferma un semplice raffronto: il contadino di Avvezzano (Napoli) vende la sua cipolla a 90 lire al chilo, quello di Margherita a 350, Napoli vende le sue patate a 300 lire, Margherita a 650.

Sotto un sole che comincia a picchiare ci inoltriamo in campi senza un filo d’ombra. A perdita d’occhio, fra salina e mare, non si vede un albero né un tralcio di vite (che pur, insieme al grano, è la coltivazione base della Puglia) che troveremo invece a sud di Margherita nei campi che si stendono verso Barletta. Un vecchio contadino e cinque uomini più giovani sono curvi su un vasto campo, giallo di patate appena raccolte. Frugano la sabbia con mani esperte e ne tirano fuori mazzi di piccole patate che allineano negli avvallamenti del campo. Il vecchio si rizza, saluta Di Staso e viene verso di noi. Mi porge una mano pesante, rigida, lavorata come la sua terra. Sul volto devastato dalle rughe brillano due occhi furbi. Il vecchio si chiama Salvatore Mazzariella, quei giovani sono i suoi figli. «Quel che manca qui», dice subito, allargando una bocca senza denti, «è l’acqua. A Trinitapoli, a cinque chilometri, l’acqua l’hanno portata, ma qui no». Alza un dito al cielo: «Qui ci mettono i fili del telefono. Ma noi, scusi, a chi dobbiamo telefonare? Se avessimo l’acqua, lo giuro sui vangeli, lo giuro sui miei figli, lo giuro» e Mazzarella si leva il cappellaccio «lo giuro sul nome della Madonna... se avessimo dell’acqua questa diventerebbe la California».

«Mazzariella è un uomo molto fortunato» mi dice Di Staso mentre ci allontaniamo «perché ha avuto cinque figli, tutti maschi, ed è ricco a miliardi». Il lamento dell’acqua l’ho sentito ripetere da tutti i contadini di Margherita. Del resto il problema è antichissimo in tutta la Puglia. Qui raccontano che quando Di Vittorio, che era di Cerignola, salito per la prima volta al nord, a Firenze, per la sua attività di sindacalista, tirò in albergo lo sciacquone del bagno, alla vista di quel ben di dio che defluiva nel cesso, abbia esclamato: «Madonna! Ma questa è la paga d’una giornata di lavoro d’un bracciante». Oggi, nella Capitanata (così si chiama la zona di Foggia) l’acqua in qualche modo arriva, non quanto ci vorrebbe, però arriva. Ma sui campi delle saline no. Neanche i pozzi servono. «Ho fatto scavare fino a 250 metri» dice Di Staso, «ma abbiamo trovato solo il sale».

La verità è anche un’altra. Ed è che, a questo punto, i contadini di Margherita non hanno più molto bisogno dell’acqua. Sono talmente abituati a non averne che possono farne a meno. Tutte le loro produzioni sono impostate in modo tale da richiedere il minimo di umidità. Con l’andar degli anni hanno creato delle patate, come l’“Apollo” e l’“Elvira”, che resistono bene alla siccità. Cosicché quello che inizialmente era un grave handicap si è risolto in un vantaggio perché la produzione non è soggetta agli umori del cielo. Una sapienza contadina affinata da secoli ha supplito alla natura matrigna. Mi racconta Di Staso mentre rientriamo a Margherita di Savoia: «Qui hai della sabbia che per il suo contenuto è priva di sostanza e non hai l’acqua. Sono due condizioni negative per la produzione. Se qui, per esempio, si piantassero le patate come si fa da tutte le altre parti non verrebbe fuori niente. Ma a questo punto entra l’abilità e l’astuzia dei nostri contadini. Ogni tubero, cioè ogni patata da semina, presenta diversi “occhi”, come li chiamiamo noi, che sono gli elementi che creano il germoglio. Normalmente gli “occhi” sono da sei ad otto e quindi da sei ad otto sono i germogli, ognuno dei quali produce parecchie patate. Ma se qui tu piantassi un tubero con otto “occhi” non germoglierebbe niente perché questa terra non ce la farebbe a sostenere il carico. Allora cosa fanno i nostri contadini? Tagliano un pezzo di questo tubero in modo da lasciare un “occhio” solo. A questo modo la pianta e la terra ce la fanno perché non sono caricate. E dal germoglio verranno fuori quattro o cinque patate, non grosse ma ottime».

Il magazzino dei Di Staso (Benito è l’ultimo di otto fratelli, cinque maschi e tre femmine, ma è il capo riconosciuto del clan) è un vecchio e scrostato capannone vicino alla stazione ferroviaria. I sacchi di tela con le cipolle e le patate, vengono caricati a spalla sui camion in attesa sul piazzale. Tutto l’andamento ha l’aria molto antica. Ma in un ufficetto a vetri, ricavato in un angolo del capannone, c’è un moderno telex, collegato con tutta Europa, la macchina per le fotocopie, i telefoni.

La mole imponente di Di Staso è dappertutto. Dà ordini, impreca, litiga, striglia i suoi uomini in dialetto, la nostra lingua africana come dice lui. Lo chiamano al telefono, da Stoccarda. Parla fittamente in tedesco, capisco solo che è furioso. Mi spiegherà poi che la giornata è andata malissimo perché l’ottanta per cento dei suoi camion sono stati fermati al confine: i sanitari tedeschi hanno trovato sugli ortaggi i nematodi, insetti invisibili e proibiti, e hanno rifiutato l’entrata. «Ma è una scusa», dice Di Staso, «il fatto è che cominciamo a dargli fastidio ed ogni pretesto per bloccarci è buono. All’estero nessuno ci difende. Se ci rivolgiamo alle nostre autorità sentiamo il solito ritornello: agiremo per via diplomatica. Ma la diplomazia in queste cose non serve a nulla. Se loro fermano otto camion dei nostri, noi dobbiamo bloccargliene dieci. Questo è l’unico modo».

Con un balzo agile Di Staso salta su un camion e comincia a scaricare sacchi di cipolle, senza smettere di impartire ordini, di rispondere al telefono e di dare udienza ad una folla minuta che viene a chiedere una piccola partita di cipolle o un favore o a fare quattro chiacchiere. Mentre è curvo sotto un sacco deve leggere un po’ di meraviglia nei miei occhi - non è cosa di tutti i giorni vedere un miliardario caricato come un facchino - e dice: «Se ti manca un operaio, che fai, blocchi tutta la catena?».

Nel pomeriggio andiamo in un campo che Di Staso ha preso a moggio a sud di Margherita, verso Barletta. Da questa parte la campagna assume un aspetto più tradizionale, più pugliese. Non ci sono più le saline, i campi sono vasti, con fitti vigneti a capanna, e una terra nera, grassa, ricca, ha preso il posto della sabbia pallida. La squadra dei contadini è disposta in una lunga fila diagonale e lavora di zappa per dissotterrare le patate seminate fra un vigneto e l’altro. Per quanto possa sembrare strano, il lavoro di zappa, che si fa sulla terra, è più duro di quello a mano che si fa sull’arenile. Perché la zappa alla lunga pesa. «E ci vuole maggiore abilità» spiega Benito «perché il colpo di zappa va dato dritto sennò si tagliano le patate ed una patata tagliata è una patata persa». Chiedo a Di Staso come mai si lavori solo a forza di braccia. Mi risponde che questa patata, la “Siglinda”, che viene venduta sul mercato tedesco, è una patata pregiata e non si può raccogliere con i mezzi meccanici perché la rovinerebbero. Ma in tutta la campagna si lavora a forza di braccia: qui l’agricoltura non è meccanizzata , come quella tedesca o emiliana o quella della pianura padana. Qui l'unico capitale resta l’uomo e la sua famiglia.

Intorno ad un tavolo ricavato da un vecchio biliardo, di cui si vede sul legno crudo ancora il disegno, stan seduti, un po’ impacciati, i contadini. È una carrellata di volti goyeschi, di bocche sdentate, di corpi straordinariamente magri o straordinariamente grassi, intorcigliati come vitigni. Il sole basso della sera, che filtra da una finestra, infiamma queste facce scorticate, che paiono di carne viva, rosse come la crosta di un gambero, rose dal sole e dal vino. Siamo alla cooperativa degli “Arenaioli” di Margherita di Savoia. È il momento clou della giornata: si tratta il prezzo delle patate e delle cipolle. Di Staso, sornione, siede in silenzio di fronte ai contadini. Improvvisamente annuncia: 400 le patate, 250 le cipolle. La stanza si riempie di urla, le braccia forti, nere di peli, battono sul tavolo. Il capo della cooperativa, un contadino anziano, inizia un discorso in dialetto fitto di cui capisco solo che il prezzo è troppo alto e che i contadini di Margherita non sono più fessi di quelli di Zapponeta che, quello stesso giorno, hanno preferito non vendere. Di Staso risponde con urla alle urla. Poi si china verso di me e mi dice a voce bassa, in italiano: «È tutta una commedia. Il capo cooperativa deve fare la sua parte per non perdere la faccia davanti ai suoi ed io la mia». Dopo un po’ il vecchio apre un grosso quaderno bisunto e segna: patate 400, cipolle 250. Una stretta di mano e Di Staso si alza. Sulla porta lo blocca un tipo mingherlino, nervoso. Dice: «Domani c’è sciopero generale. Non si consegna niente». I contadini tacciono, imbarazzati. Di Staso guarda il sindacalista dall’alto dei suoi due metri. Dice, calmo: «Fate quel che volete, ma io ho tre camion che aspettano e che domani devono partire». Il sindacalista urla, Di Staso urla. Si raggiunge l’accordo: lo sciopero si farà da Margherita a Barletta, ma non da Zapponeta a Margherita.

Mentre mi accompagna in macchina verso il magazzino, Franco, il giovane autista e factotum di Di Staso, che è legato al suo padrone da un affetto filiale e che ha per lui un’ammirazione sconfinata, mi confida: «Benito è un figlio di puttana. Ma a Margherita “figlio di puttana” vuol dire uno che ci sa fare, uno che ha due coglioni grossi così».

Dieci di sera. Uno splendido maglione blu girocollo, su una camicia Oxford e pantaloni anch’essi blu, occhialini bifocali tenuti da una catenella: a cena in uno dei migliori ristoranti di Barletta, Di Staso mostra l’altra sua faccia, quella del ricco signore. Gli chiedo di raccontarmi la sua storia.

«Cominciò mio padre, Giuseppe, intorno al 1910. Allora si faceva mediazione soprattutto di vino pesante, denso, di qui, che vendevamo nel bergamasco, a Cantù, a Como, in Brianza, perché da quelle parti erano forti bevitori e gli piaceva il vino con un po’ di sostanza. Ma è cosa passata perché gli intermediari di quelle zone sono scomparsi quasi tutti. Mio padre sposò una donna romantica da cui ebbe tredici figli. I primi tempi furono durissimi. Nel '36 cominciammo ad andare all’estero, in Inghilterra, con le patate che noi chiamiamo “bisestili”, quelle di novembre. Poi mandammo le carote con i mazzettini di foglie, per dare l’impressione che fossero carote moderne, perché gli inglesi sono speciali in queste cose, adorano i particolari. Più o meno in quel periodo cominciammo anche in Francia. Da allora ci sono rimasti legami strettissimi con quei paesi. Sono rapporti collaudati: loro sanno quel che forniamo, noi sappiamo che pagano.

Si lavorava, si guadagnava, si aveva una certa liquidità e si facevano investimenti, in case, in terreni, in immobili. Nel lavoro invece non c’era bisogno di investire perché quello andava tranquillamente da sé. Per qualche tempo siamo andati anche fuori Margherita, abbiamo lavorato nel leccese, in Sicilia, in Calabria, con le produzioni tipiche dell’estremo sud, melanzane, peperoni, angurie, meloni, pomodori, fichi. Questo è durato fino al '63. Poi ci accorgemmo che con le spese e i costi non ci stavamo più e abbiamo preferito chiuderci nel guscio delle nostre produzioni che esportiamo quasi interamente. Nulla esclude che non si possa all’occasione giusta essere presenti anche sul mercato italiano, sempreché sia remunerativo. Ma per il momento preferiamo l’estero anche se non è un mercato facile perché bisogna saper offrire dei prodotti di costante attualità. Il consumatore infatti non vuole sempre gli stessi prodotti. Oggi si fanno diete, si ascoltano i consigli dei medici, si seguono le mode e così un prodotto che va benissimo un anno può non andare affatto quello successivo. Quasi ogni mese io devo lasciare Margherita per andare in giro a capire quello che sta succedendo. Ogni mese io mi faccio tutte le capitali e tutti i maggiori mercati europei. Adesso, per esempio, un prodotto che va, forse quello che va più forte, è l’aneto, che è un’erba che assomiglia molto alla foglia del seme di finocchio e serve come decorazione: a Londra o a Copenaghen, quando preparano il sandwich, sulla fetta di formaggio o di prosciutto mettono la fogliolina di aneto. Poi c’è il prezzemolo riccio: non c’è oggi ristorante europeo che si rispetti che non decori i suoi piatti con un ciuffetto di prezzemolo riccio. Ecco, se uno è sensibile a questi fenomeni, a questi mutamenti del gusto, i suoi affari li fa e li fa bene. Quello che invece non capisco, e che anzi mi fa infuriare, è che qui c’è una Cooperativa, democristiana, che raccoglie molti agricoltori di Margherita che gli conferiscono il prodotto, che non ha il problema, come ce l’ho io, di andarsi a cercare il cliente, che ha prestiti al tasso agevolato del quattro e mezzo per cento, che non paga gli impiegati perché sono a carico della Regione, e che ogni anno riesce ugualmente ad essere in deficit di più di cento milioni. Questo mi fa impazzire. Noi Di Staso in settant’anni di attività non abbiamo mai chiuso un bilancio in rosso».

Barletta. Non tutti forse sanno che Barletta, novantacinquemila abitanti, è una città ricchissima. La sua Banca Commerciale è al secondo posto, per utile, di tutto il sistema della Comit. Nel suo centro si raccolgono le sette maggiori banche nazionali, fra cui, oltre la Commerciale, il Credito Italiano, il Banco di Roma, il Banco di Napoli. Un appartamento in centro ha prezzi milanesi o romani, un milione e mezzo al metro quadro, in periferia si va dalle 400 alle 600 mila lire, un piano terra, cioè un negozio, costa due milioni e mezzo al metro quadro.

Barletta, che è il capoluogo di fatto anche se non di diritto della zona, oltre ad avere un notevole sviluppo industriale, fa da collettore delle ricchezze della campagna circostante e dei paesi vicini, di Margherita, di San Ferdinando, di Trinitapoli. Ed è qui, a Barletta, che le ragioni di questa ricchezza, che avevamo visto solo in nuce a Margherita di Savoia, diventano chiare, distinguibili, non più caso isolato, ma fatto sociale: la grande capacità di lavoro e di sofferenza degli abitanti, il mélange fra uno stile di vita antico e un modo moderno di fare business, la debolezza di un apparato burocratico, sindacale e politico che qui pesa meno che altrove.

L'attività leader di Barletta è oggi quella delle scarpe. Qui facevano, per antica tradizione, le pantofole. Ma le pantofole sono diventate adesso modernissime scarpe da «training» e da «jogging», scarpe per il tempo libero ed il campeggio, che prendono la strada dell’Inghilterra, della Germania, della Francia. Le pantofole invece vanno in Libia, in Turchia, in Arabia. Gli operatori principali sono la Playbasket e la Playmaker di Stefano Di Cosola, la Nuova Universo di Liberti, la Cooperativa Alba dei fratelli Battaglia, i fratelli D’Amato, il presidente del Barletta-calcio, Roggio. Nella scia di questi lavorano altri duecento calzaturifici fra medi e piccoli ed un «indotto», quasi sempre familiare, sommerso e «nero», che fa tomaie e lacci.

Forti sono anche i maglifici, una settantina (anche se da un paio di anni c’è una leggera flessione perché si passa di colpo dall’inverno all’estate e non c’è mezza stagione), che si avvalgono anche di mano d’opera che viene da Terlizzi, da San Ferdinando, da Andria. In sviluppo sono anche gli imballaggi, il che è abbastanza significativo perché c’è imballaggio dove c’è qualcosa da imballare.

Hanno quasi tutti cominciato da niente, in casa, sepolti più che sommersi, poi, visto che le cose andavano, hanno tirato su un capannone, poi due, adesso danno lavoro a decine di operai.

Spingo la porta della Commerciale, un edificio modesto in piazza Caduti di guerra, nel centro di Barletta, dove sono riunite tutte le banche e una folla enorme, vociante, poveramente vestita, che si pigia senza ritegno nel locale angusto, mi si para dinanzi. Sembra di essere in qualche ufficio Inps il giorno del pagamento delle pensioni. Il tono è quello. «Ma non ce n’è uno di questi che non tenga “a libretta”, come dicono qui, e che sulla “libretta” non abbia, almeno, i suoi cento milioni» mi dice il direttore della banca, il dottor Proietti, che è umbro d’origine, di Foligno.

La cosa straordinaria di Barletta è infatti che la sua ricchezza non si vede. La città vecchia ha la tipica aria da souk arabo, quella nuova è trasandata, le case sono senza pretese. I volti sono contadini come il modo di vestire. E dei contadini hanno conservato lo stile di vita. Sono ricchi da poco e non gli passa neanche per la testa che il denaro possa essere usato per abbellire la propria esistenza, per comprarsi un buon vestito, per rifarsi la bocca. Conferma Proietti: «Guadagnano e risparmiano. Risparmiano e guadagnano. E i risparmi li mettono in banca o li investono in terreni. Molti continuano a vivere nel “sottano”, ma fuori hanno la macchina e dentro hanno tutto e sotto il cuscino tengono il conto corrente con i milioni». I negozi, anche quelli del centro, sono modesti rispetto a quelli delle città del nord anche molto più povere di questa. E la boutique delle sorelle Fendi, che sono calate qui attratte da questa nuova ricchezza, fa magri affari. L’unico lusso che i barlettani si concedono è il ristorante (il «Brigantino», il migliore della città, ventimila a testa, è sempre pieno), ma anche questo, a pensarci bene, non è che il segno di una fame ancora recente. Solo nei figli, ma non in tutti, questa ricchezza affiora. I padri restano quello che sono sempre stati.

Che Barletta sia ricca, anche se questa ricchezza non è ostentata e non si vede, è un fatto incontestabile. Più difficile è spiegare perché lo sia diventata soprattutto in questi ultimi anni. Dice il cavalier Memmo Frezza, che dal 1920 commercia macchine per l’industria: «Barletta ha sempre avuto una vocazione industriale». E il professor Salvatore Garofalo, che insegna politica ed economia agraria all’Università di Bari, aggiunge: «I barlettani hanno un forte spirito imprenditoriale ed un sentimento di emulazione che è molto raro al sud, e nella stessa Puglia, dove la mentalità dominante è purtroppo quella di lasciarsi andare e di cercare di mettere i bastoni fra le ruote a chi fa qualcosa. Questo fatto culturale è molto importante. Ma, oltre al carattere dei barlettani, le potenzialità di un forte sviluppo c’erano tutte, già in passato: un mercato vivace, il porto, una buona posizione fra Bari e Foggia alla confluenza dell’Ofanto, infrastrutture, strade, autostrade».

Ma che cosa ha fatto scattare il decollo di Barletta? Sostanzialmente la sua lontananza dall'Italia che non funziona. Non è un caso che il boom di Barletta inizi proprio negli anni '70 quando il resto dell’Italia entra in crisi e che lo sviluppo dei suoi calzaturifici sia contemporaneo alla flessione di quelli di Vigevano. Fra il '70 e l’80 Barletta si trova nella condizione ideale di poter sposare uno stile di vita antico - il che vuol dire nessuna burocratizzazione, poco sindacato, poca politica - con uno spirito imprenditoriale moderno, proprio mentre il resto del paese diventa poco competitivo. Inoltre può mettere così finalmente a frutto un solido lavoro “preparatorio” cominciato intorno agli anni trenta.

Lo stesso fatto di essere un lembo di terra dimenticato si risolve in un vantaggio. Non ci sono stati qui, da parte dello Stato, insediamenti industriali mastodontici come altrove in Puglia (l’Italsider di Taranto, il Petrolchimico di Brindisi, per non citarne che due). Ciò ha impedito da una parte che si inoculasse nel sangue della gente di qui il veleno dell’assistenzialismo e la pretesa che sia lo Stato a risolvere tutto (sono ormai molti a ritenere, anche qui al sud, che certo meridionalismo piagnone e la Cassa del Mezzogiorno siano stati più dannosi che utili), e dall’altra che l’industria schiacciasse l’agricoltura. È cresciuta invece gradualmente un’industria non assistita, quasi esclusivamente locale (da fuori sono venuti sola la Unicem, cementeria del gruppo Fiat, la Cidneo di Brescia, sanitari, e la Italsilos di Napoli, non molto percentualmente), che si è fermata alla media dimensione e si è ben integrata con l’agricoltura, invece di sostituirla e cambiare così anche quello stile di vita, laborioso, onesto, familiare, solido, parsimonioso che ha fatto finora la fortuna della città. Anche se Barletta è ormai circondata da una periferia di fabbriche, di capannoni, di magazzini, la presenza contadina si avverte ancora molto in città. E non solo come retaggio culturale. Basta mettere piede un giorno qualsiasi, dopo le cinque del pomeriggio, in piazza Roma, per trovare una folla di contadini e di sensali, che discute, tratta, stipula contratti suggellati da una stretta di mano (e spesso si tratta di contratti “a colpo” in cui le parti giocano sul rischio: viene cioè comprato l’albero ai primi germogli quando non si sa ancora quanto produrrà). Afferma Garofalo: «Lo sviluppo industriale si avvantaggia di questo solido retroterra agricolo». E viceversa.

«Barletta» mi dice ancora Proietti «non ha delinquenza, qualche scippo, qualche furtarello». Del resto la città, pur nel suo aspetto modesto e forse proprio per questo, ha ancora una dimensione umana, anche perché finora non si è commesso qui l’errore, fatto invece, per esempio, a Bari, di cacciare gli abitanti più poveri dalla città vecchia e rinchiuderli in qualche quartiere ghetto della periferia.

Anche la politica è discreta e non fa i guasti consueti. La giunta è di sinistra, ma convive senza traumi con una città rimasta profondamente cattolica (sono entrato alle otto di sera di un martedì qualsiasi nella grande chiesa di corso Garibaldi: non ci si poteva muovere tanto era zeppa di gente).

Tutto procede bene quindi, a Barletta? Per ora. L’impressione infatti è che la città sia arrivata al suo zenit e che i problemi comincino ora. A causa proprio della sua opulenza. Questa nuova ricchezza sta infatti attirando su Barletta l’attenzione pelosa dell’Italia che non funziona. Già da un paio d’anni a Barletta, ma anche a Margherita, a San Ferdinando, a Trinitapoli, si è affacciato, sia pur ancora timidamente, lo spettro del racket, che trova la sua manovalanza a Canosa, l’unica città depressa della zona, ma i suoi ispiratori in Campania. La speculazione edilizia, che aveva saputo contenersi entro limiti di decenza nei due precedenti periodi di boom delle costruzioni (che qui si sono avuti fra il '50 ed il ’60 e fra il '65 ed il '78) si è fatta più spregiudicata e al di là della ferrovia ho visto che sta venendo su, in mezzo al “terrain vague”, un quartiere di falansteri di cartapesta pericolosamente simile al Gratosoglio di Milano o al Traiano di Napoli o alla Magliana di Roma o al Cem-San Paolo di Bari. E ormai sappiamo a memoria che cosa viene fuori da questi quartieri-ghetto: la violenza, la criminalità organizzata, la delinquenza politica, la droga, la disperazione.

Infine adesso anche i politici guardano con maggior attenzione a Barletta. E anche questo è poco rassicurante. Me ne giravo verso sera, col mio pacco di giornali sotto il braccio, per le strade tortuose della città vecchia, sfiorando i sottani celati dalle grandi tende, al di là delle quali, qualcuno, una donna, cantava un motivo moderno con la cantilena delle nenie arabe. Me ne stavo, beato, in quell’atmosfera da souk e respiravo forte per sentire quell’odore grasso e dolce, quell’odore di miele cotto che è l’odore di Istanbul, che è l’odore di Atene, che è (o era) l’odore di Venezia, che è l’odore dell’Oriente, quando d’improvviso mi sono trovato circondato da una folla di bambini. Erano ben vestiti e avevano i visetti puliti, ma istintivamente ho messo la mano in tasca pensando che volessero qualche moneta. Ma il più grande, avrà avuto sì e no otto anni, mi ha chiesto: «Signore, ce li regali i tuoi giornali?». Glieli ho lasciati, un po’ sorpreso, ed ho proseguito mentre sentivo, alle mie spalle, che si disputavano, con alte grida infantili, quei fogli spiegazzati.

Pagina, agosto-settembre 1982.

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