martedì, dicembre 14, 2021

Massimo Fini

 Fabio Canessa


C’era una volta il giornalismo. Quello in cui la cronaca era avvincente come un romanzo e le inchieste erano fresche come la vita “in presa diretta”. Un giornalismo che si faceva «prima con i piedi e poi con la testa», perché la prima regola del mestiere, imposta dai direttori, era «uscire dalle redazioni, guardare, osservare, annusare e soprattutto ascoltare». Era impensabile che anche una semplice intervista potesse essere raccolta attraverso una telefonata: «la persona la dovevi vedere in faccia». Per rendere omaggio a questo giornalismo «estremamente faticoso, a volte massacrante», ma di qualità stellare, Massimo Fini ha raccolto il meglio della sua attività di cronista e di inviato in un volume di trascinante lettura che è molto di più di un’antologia di articoli eccellenti. È uno dei rari esempi in cui il giornalismo diventa letteratura, perché la brillante cifra stilistica di Fini è sempre riconoscibile: eppure i pezzi coprono un largo arco cronologico (dagli anni Settanta a oggi) provengono da testate assai differenti tra loro (da “L’’Europeo” a “Linus”, da “La Domenica del Corriere” a “Il Fatto Quotidiano”) e attraversano una varietà di generi.


Potremmo considerarlo un testo narrativo, vista la felice vena affabulatoria che lo attraversa, oppure un libro di storia, dal momento che attraversa mezzo secolo di storia d’Italia con tutte le trasformazioni sociali, politiche, culturali e antropologiche. Ci si stupisce soprattutto per come Fini abbia profeticamente anticipato tanti temi che il tempo ha poi provveduto a complicare, come l’ascesa e la caduta delle grandi aziende (Fiat, Olivetti, Rizzoli) o i problemi delle grandi città. Oppure l’omofobia, al centro di un’inchiesta datata 1978 nella quale si auspica «il giorno utopico in cui a ciascuno di noi sarà riconosciuto il diritto di essere ciò che è». Il vertice si tocca con le interviste a Pier Paolo Pasolini, con il quale Fini ebbe non solo una costante familiarità ma anche una profonda affinità di idee, nella convinzione che «il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi» e per la nostalgia di un passato preindustriale dove i sentimenti, la dignità e l’autenticità non avevano subito l’appiattimento dell’omologazione. La medesima sintonia che Fini riscontra in un altro regista, Ermanno Olmi, che sembra addirittura anticipare papa Francesco quando, in un’intervista del 1986, sostiene che dare importanza a Dio significa dare importanza agli uomini.


Con il taccuino in tasca, il cronista Fini attraversa l’Unione Sovietica e l’Iran, l’Egitto e Israele, il Sudafrica e il Giappone, tutti paesi di cui ignorava tutto prima di metterci piede, e poi torna con un reportage che racconta mirabilmente la “way of life” di ognuno di essi. Due sono le doti assolutamente necessarie per fare bene questo lavoro: la curiosità e l’intuizione. Ma siccome Fini non è solo un giornalista ma anche uno scrittore, non gli sfugge che l’eccesso di profondità potrebbe inibire lo slancio narrativo: «se un giornalista va in un posto e ci resta un giorno scrive un articolo, se ci sta un mese scrive un libro, se ci sta un anno non scrive più nulla tanto complessa è la realtà».


Dichiaratosi più volte ossessionato dal trascorrere del tempo, dall’incalzare della vecchiaia e dall’idea della morte, sembra che Fini abbia fatto il giornalista proprio per allungare il tempo e dilatare lo spazio: a forza di immergersi nelle vite di tutti e di spostarsi qua e là per tutti i Paesi del mondo, è arrivato a 78 anni con una tale giovinezza di scrittura e di pensiero da farci pensare che l’obiettivo di contrastare il tempo sia stato raggiunto.

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