lunedì, marzo 21, 2022

Gaetano Amato

 <Mio marito non c’è. E’ uscito e non so quando rientra.> mi disse tenendo gli occhi bassi, mentre la bambina le si aggrappava alla gonna interrompendo il suo mordicchiare sul cozzetto di pane. 

Mi fermai ad osservare quest’ultima. 

Bastarono pochi secondi e la mente volò indietro di oltre 50 anni, a me e mio fratello, in cucina, che facevamo a gara a chi riusciva a prendersi il cozzetto,  bagnandolo poi nel sugo che pippiava sul fuoco, mamma e cucchiarella permettendo.

La cucchiarella, cucchiaio di legno buono per tutti gli usi, ovvero il naturale prolungamento punitivo del braccio materno.

Di qualsiasi madre, di qualsiasi ceto, di qualsiasi età.

È talmente tanta l’abilità femminile nell’utilizzo della suddetta, che ho sempre pensato che nel dna le donne avessero un cromosoma denominato C. 

Una catena di x,y e c. 

C come cucchiarella.  

Nei casi di più gravi marachelle, la cucchiarella era sostituita dalla ciabatta, o, nel peggiore dei casi, dagli zoccoli, vere e proprie armi improprie che sembravano radiocomandati dal pensiero materno. A nulla serviva scappare lungo il corridoio perché lo zoccolo, lanciato con precisione olimpica, ti rincorreva.  Se tu svoltavi, svoltava anch’esso e non cessava la sua spinta fino a quando non ti raggiungeva, colpendoti esattamente dove chi lo aveva lanciato voleva. 

Una fuga senza speranza, se non quella di evitare la ciaccata, ovvero lesione della cute, con fuoriuscita di liquido ematico, necessitante di punti di sutura. 

Ormai mi ero abituato a questi salti nella memoria. 

Sarà che forse non ho mai accettato i cambiamenti di questa Napoli, il suo inaridirsi, il suo non avere più tempo di godersi il tempo. Non ci sono più le zi Teresa del vicolo a cui se chiedevi un’informazione mentre era seduta davanti al basso, prima di risponderti ti doveva offrire il caffè. Non è più il tempo che prima di parlare con le parole si parlava con gli occhi, guardandosi. 

Si leggevano i silenzi. 

Quei silenzi che ti spiegavano la vita, che ti dicevano questo si quello no. 

Quei silenzi pieni di parole, occhi grondanti emozioni, il sapere di chi la vita l’ha vissuta sul serio, lottandoci giorno per giorno e, seppur minimamente, vincendo la lotta, perché sopravviveva.  

Tornai a guardare la donna. 

Si stava mordendo il labbro.

Era evidente che stava mentendo. 1

A chi non è abituato a farlo glielo leggi in faccia. 

Sicuramente Vincenzo Lettieri, il marito, era chiuso in bagno e aspettava col cuore in gola che me ne andassi.

Erano brave persone. 

Oneste e puntuali nei pagamenti. 

Non sapevo cosa fare.

Se avessi dato retta al mio istinto me ne sarei andato senza aggiungere una parola. 

Conoscevo bene lo stato d’animo di quella donna in quel preciso momento. Quante volte era successo anche a me! 

Non sai dove guardare, le mani ti sudano, il cuore batte forte in petto e vorresti sprofondare. Quando devi combattere per sopravvivere hai solo te accanto a te. Come per magia tutti si defilano. Spariscono. Sono all’estero. Compresi quelli a cui hai sempre teso una mano. Anzi, quelli sono i primi a sparire. Sarà che forse gli ricordi il loro passato, che sei la testimonianza vivente di quello che sono stati. Mi immaginai Lettieri telefonare al mondo intero per avere una mano e il mondo intero rifiutarsi di farsi carico del problema. 

Già, il problema della vita altrui. 

Duecento euro, la somma che dovevo riscuotere per conto di Giannetti, il “nostro” padrone di casa. Un comportamento professionale mi avrebbe imposto di restare lì ad esigere il pagamento, con minacce di sequestro dei mobili, ingiunzioni di sfratto, e via dicendo. La povera donna sarebbe scoppiata in lacrime, il marito, uscito dalla tana, mortificandosi, mi avrebbe chiesto qualche giorno di proroga. Io glielo avrei accordato e lui, per non venire meno alla parola datami e per evitare una figura da poveraccio, se non fosse riuscito a racimolare i soldi, probabilmente si sarebbe rivolto a uno strozzino dando inizio alla escalation della disperazione. Gli interessi sarebbero diventati il doppio poi il triplo del capitale e così via, fino a farlo precipitare in un abisso senza uscita. 

A Napoli si dice:’O cane mozzeca ’o stracciato! 

Per duecento miseri euro.

Miseri quando li hai!!! 

Ma se non hai un centesimo, duecento o duemila sono la stessa identica cosa. 

La bambina mi guardava incuriosita mentre istintivamente riaddentava il pane che aveva in mano.

La cascata di riccioli neri le copriva parte del volto facendo pandant con un paio di bellissimi occhi più scuri del carbone.

Non si sentivano profumi di cucina provenire dalla casa, per cui, probabilmente, quello sarebbe stato il suo pasto.

<Quanto tiene?> chiesi alla donna indicando la piccola.

<Fa due anni la settimana prossima.> rispose affondandole le dita nei capelli.

Mi acquattai di fronte a lei.

<Come ti chiami?>

Si avvinghiò ancora di più alla gamba della madre, nascondendo il volto nella gonna.

<Rispondi al signore. Non ti vergognare.> la esortò la donna con dolcezza.

<Rosa.> sussurrò lei continuando a farsi scudo con la gonna della madre.

Mi rialzai.

<Facciamo così. Dite a don Vincenzo che appena tiene un po’ di tempo passa lui da me in ufficio. Con calma. Senza fretta.>

Le brillarono gli occhi e d’incanto le si disegnò un sorriso sulle labbra.

<Appena viene glielo dico.>

Un altro sorriso. 

Chi sa da quanto tempo non sorrideva. 

Per un istante, un solo istante, aveva avuto la sensazione che Dio esiste. 

Beh, paragonare me stesso a Dio me pare nu poco esagerato, diciamo che aveva avuto la sensazione di non essere sola.

Feci un cenno di saluto con la testa e mi avviai giù per le scale. La donna e la bambina erano ferme sulla soglia e mi accompagnavano con lo sguardo.

<’A Madonna v’’o rende! Grazie.> disse sincera.

Mi voltai a guardarle, feci un sorriso e ripresi a scendere.

“C’aggia fa, a volte basta così poco per sentirsi in pace col mondo” dissi a me stesso.

Arrivato in strada, venni investito dall’afa pomeridiana che toglieva il respiro. Per tutta l’estate avevamo avuto tempo instabile. 

Il caldo e il sole lasciavano improvvisamente il posto agli acquazzoni, poi di nuovo il sole, e poi ancora la pioggia. Si era andati avanti così fino ai primi di settembre, quando di colpo la temperatura era schizzata su, e c’era rimasta. 

Il termometro di piazza Municipio segnava 34 gradi, però dal porto veniva su un leggero venticello che a tratti ti faceva risciatare, respirare. 

“Quando si dice che non esistono più le mezze stagioni!” pensai

Mi lasciai corso Umberto alle spalle dirigendomi a piazza Trieste e Trento. Malgrado fossimo già al 10 settembre, c’erano in giro poche auto e giusto qualche motorino. Sembrava che la città stesse ancora godendo le ferie. 

Ferie? 

O crisi? 

Soldi in giro ce n’erano sempre di meno e la gente spesso preferiva non uscire di casa. Guardando verso il porto vidi che sul prato antistante il Maschio Angioino un nutrito gruppo di turisti giapponesi scattava foto ricordo a ripetizione. Provai a tirare diritto ma uno di loro mi raggiunse. 

“Do you speak english?”

“Non ho capito!”

“Vous parlez francois?”

Lo guardai.

“Espanol?”

“ E se io sapevo parlare tutte sti lingue stavo qua?”

Come se avesse capito, mi sorrise.

Mi mostrò la macchina fotografica e mi indicò tutto il gruppo.

Voleva che gli facessi una foto ricordo.

Feci cenno di si con la testa.

Mi diede la macchina fotografica, ma senza lasciare completamente la tracolla, e si avviò con me dietro, come con un cane al guinzaglio.

“Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio!” 

E come dargli torto.

Era bella quella macchina.

“Mo quasi quasi gli faccio il pacco” pensai. Scherzo. 

Sono una persona onesta io. 

Però, non  nego che la macchina mi sarebbe stata utile.

Raggiungemmo gli altri e tra inchini vari passammo un quarto d’ora a fare su e giù con la testa.

Ma non si stancano, dico io? Uno non fa prima a dicere ciao, e leva tutto stu casino di mezzo?

Finiti i salamelecchi già stavo buttando sudore da tutti i pori e quelli invece erano freschi e sorridenti come se il caldo manco lo sentissero. 

Ma non è che tengono i condizionatori incorporati, il microchip addereta e recchie?

Si schierarono, ma erano troppi e non entravano nell’inquadratura, per cui feci un passo indietro.

Immediatamente compensato da un loro passo in avanti. Io andavo indietro e loro venivano avanti. Il primo a partire era sempre il proprietario della macchina.

Secondo me voleva evitare che mi allontanassi troppo.

E pensare che tanti anni fa questa era la tecnica prediletta di Michele “comme ‘o viento”.

“Comme o viento” era velocissimo. Da qui il suo soprannome.  

Una dote naturale che se ben impiegata gli avrebbe dato un titolo italiano di atletica invece che una decina di anni di carcere. 

Michele gironzolava nei luoghi frequentati dai turisti. 

Non scippava. 

Aspettava. 

Stava la e andava avanti e indietro fino a che il malcapitato di turno  gli chiedeva aiuto, vuoi per una foto, vuoi per reggere un attimo una borsa. 

E quello era il momento di Michele. 

Come avuta tra le mani la “preda” partiva in uno scatto rapidissimo e il malcapitato non aveva nemmeno il tempo di dire dove vai che Michele era già sparito nei vicoli.

In una di queste sue mirabolanti azioni predatorie Michele ebbe la sfortuna di cadere tra le mie braccia, quando ancora ero poliziotto. 

Cadere nel senso letterario del termine. 

Inciampò e mi cadde addosso.

In mano aveva una macchina fotografica.

Non fece in tempo a rialzarsi che lo avevo preso per la collottola.

“Brigadiè, e c’aggio fatto?” chiese quasi stupendosi del mio fermo.

“Esattamente non so cosa, ma di sicuro niente e buono”

Vidi la macchina fotografica. Una nikon FE che costava un sacco di soldi per l’epoca.

“E questa da dove l’hai presa?”

“Ah, questa! Non è la mia. Me l’ha data un turista!”

“O turista ti ha visto in faccia e ti ha regalato la macchina fotografica!”

“no, no, che regalata. Gliela dovevo mantenere”

“ E tu per mantenergliela meglio te ne si fujuto!”

“Fujuto? Ma quanne maie brigadiè. Io mo tornavo indietro e gliela portavo. Quello è successo che mentre lui me l’ha data, a me m’è venuta ‘na botta e panza. Me putevo fa sotto annanze o turista? E che figura e merda, mo ce vo,  ce facevo fa a tutt’e napulitane?”

Gli diedi nu pacchero che secondo me se lo ricorda ancora.

Ora, al pensiero, sorrisi. 

Guardai il giapponese che continuava ad avanzare.

“Giggì, se non ti fermi non entri nella foto!”

<What?>

<What ti ja fermà. Tu stop, no walk, si no nun ce ne jamme cchiù! Cioncati tu e tutta a banda e samurai. You understend?>

Sorrise facendo si con la testa.

Mi fermai io con l’arretramento, se no correvamo il rischio di arrivare dentro al municipio.

Gli feci cenno di stringersi e loro sorridenti si strinsero.

Click.

E il proprietario si precipitò a riprendersi il suo tesoro.

Altro quarto d’ora di inchini e me ne andai.

Me ne risalii passando davanti al san Carlo e, arrivato a piazza Trieste e Trento, feci una sosta al Gambrinus per una spremuta d’arancia con ghiaccio. Da li risalii Monte di Dio avviandomi a casa. 

La camicia inzuppata di sudore mi si era attaccata alla schiena e l’unica cosa che desideravo era infilarmi sotto la doccia. Della lista di Giannetti mi restavano ancora quattro inquilini da visitare, più quelli nel mio palazzo, cioè io e Barbara

<Meglio rimandare a stasera.> mi dissi.<Magari cala un poco l’afa.>

Entrai nel palazzo e mi fermai davanti alla guardiola. Lisa era seduta all’interno e sventolando un ventaglio spagnoleggiante si procurava un po’ di refrigerio.

<Cu stu sole stu sole cucente, che voglia e fa niente, ma chi vo fa niente!> canticchiò vedendomi arrivare.

<Quando ’o canario canta o ’o ffà pe’ rraggia o ‘o ffà p’ammore!> ironizzai.

<Tu tieni ’a capa fresca. ’O cavero ammoscia ‘e fiche Gennà!>

Sorrisi pensando che Eduardo De Filippo si sarebbe sicuramente innamorato di un personaggio così.

<Che vuoi mangiare stasera?> aggiunse mentre il movimento del polso che reggeva il ventaglio accelerava.

<Tengo nu pescetiello in frigo e me lo faccio all’acqua pazza.>

Lei assentì con un movimento della testa.

<Novità?> chiesi.

<Una telefonata, ma non ho capito chi era. Mentre lo stavo domandando è caduta la linea e non ha chiamato più.>

La salutai con un gesto della mano e mi avviai su per le scale. 

Il pianoforte si fece sentire mentre aprivo la porta di casa. 

Me la immaginai seduta mentre faceva scivolare le dita sui tasti, accarezzandoli dolcemente. 

Entrai. 

Avevo lasciato le persiane abbassate e questo aveva fatto in modo che in casa si avvertisse una sensazione di frescura. Presi a spogliarmi. Barbara continuò  a suonare per tutto il tempo della doccia e oltre. Quelle note mi entravano dentro regalandomi una sensazione di leggerezza. Mentre mi asciugavo azionai il registratore, feci andare per un po’ e spensi. Mi sarei servito della cassetta il giorno dopo, per far capire al negoziante quale cd volevo. Mi stavo rivestendo quando cessò di suonare e dopo pochi minuti la sentii scendere per le scale canticchiando. Avrei voluto uscire “per caso” ma mi bloccai. Mi sedetti alla scrivania a fare un po’ di conteggi. Avevo raccolto per conto di Giannetti quattordicimila euro a cui aggiunsi i miei duecento e i duecento non “riscossi” da Lettieri. Mancavano i centocinquanta di Barbara che avrei incassato il giorno dopo e altri milleseicento di quattro appartamenti poco distanti. Misi in una busta soldi e elenco e me ne andai alla finestra, giusto in tempo per vedere Barbara allontanarsi su una moto assieme ad un ragazzo che avrà avuto più o meno la sua età.

<Ma che cazzo ti eri messo in testa!?> dissi a me stesso. <Alla tua età! Chiste overo sta perdenne e chiocche!>

Rientrai e mi distesi sul divano. Non avevo più voglia di fare nulla.

(da lacrime napulitane)

Nessun commento: